slogan

Italian Bulgarian English French German Macedonian Maltese Romanian Russian Spanish

Il rito americano

Nella notte tra domenica e lunedì, a Glendale, in Arizona, allo “University of Phoenix”, è andato in scena il 49° Superbowl di football americano, rito pagano/sportivo per eccellenza alle latitudini statunitensi.

Di fronte le franchigie del New England, i Patriots, e l’omologa di Seattle, i Seahawks, per la gioia, e la passione, delle migliaia di fortunati che hanno potuto assistere dal vivo, live come dicono da quelle parti, all’evento e ai milioni che si sono piazzati davanti al televisore, focalizzando le attenzioni di un’intera nazione su quel singolo evento. Ogni volta che si assiste a questo tipo di manifestazione, almeno per l’osservatore esterno non avvezzo a quello sport, si ha la netta sensazione che l’accadimento sportivo sia un corollario, quasi marginale, all’enorme spettacolo che gli viene costruito intorno. Si sprecano majorettes e bande musicali sul campo, oltre a cantanti e a personalità varie che approfittano dell’ampia vetrina per mettersi in mostra una volta di più (lucrando anche cachet non indifferenti). Per noi osservatori distaccati resta sempre un mistero di come questo sport, vera business machine con la sua alta telegenicità, visti i numerosi spot inseriti nelle infinite pause, venduti a suon di milioni di dollari, resta un mistero, dicevamo, tanta attenzione. Il football americano è uno sport abbastanza semplice, a mio avviso anche piuttosto statico: un regista, il quarterback, gestisce la palla che lancia ad un receiver, il quale corre in avanti fino a raggiungere, quando ci riesce, la zona di touchdown. Tutto qui, il gioco degli altri dieci (si gioca in undici come nel calcio, ma con un numero illimitato di sostituzioni, con intere squadre che cambiano a seconda della fase di gioco) consiste in blocchi e tentativi di passaggi. Niente azioni alla mano, come nel rugby da cui origina, niente gioco di squadra con il pallone. Grandi esibizioni di muscoli, però, in quello che sostanzialmente è un vero e proprio inno al machismo americano, con i giocatori “drogati” di adrenalina (e non solo quella, sospettiamo). Questo sport è una continua esaltazione di pura forza muscolare, un continuo cozzare di corpi ipertrofici, con scontri al limite (e a volte oltre) della disarticolazione fisica, con un altro motivo di fascinazione che consiste nella quasi miracolistica ricomposizione di quelle membra smontate. È chiaro che ci troviamo di fronte a super atleti capaci di resistere a quegli impatti, ma per noi profani è sempre un restare con il fiato sospeso sui grovigli umani e sui sospiri di sollievo quando quelle massi di carni ridiventano singole individualità. Resta da ammirare la capacità imprenditoriale degli americani, che hanno costruito una vera e propria macchina da soldi intorno a questo evento. Per la cronaca, ma quasi a margine della discussione, questo Superbowl è stato vinto dai New England Patriots per 28 a 24 sui Seattle Seahawks, ma questo è proprio a margine del rito…

 

 

(C) RIPRODUZIONE RISERVATA