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Valdir Peres, portiere

Ci sono paesi nel mondo in cui, nel calcio, il retaggio culturale ha portato allo sviluppo maggiore di determinate attitudini e ruoli, questi ultimi esaltati dai grandi canpioni che li hanno incarnati.

È fuor di dubbio, infatti che l’Inghilterra può essere vista come la patria dei grandi attaccanti, la Francia dei raffinati registi, la Germania degli arcigni combattenti del centrocampo, l’Italia come la depositaria di un’idea di gioco difensiva e speculativa, accompagnata, perciò, dall'essere una terra di grandi difensori e portieri.

Proprio quest’ultimo ruolo in Brasile, la terra della fantasia e del divertimento calcistico allo stato puro, ha visto qui la sua esaltazione negativa, e non poteva essere altrimenti. Nella patria del Futebòl Bailado, dove il gioco del pallone è concepito solo come idea offensiva, in genere sono quelli meno portati, i più “scarsi" che vengono relegati tra i pali, a riempire un ruolo che la necessità del gioco impone, ma di cui i sudamericani farebbero volentieri a meno.

Il primo a sdoganare un po’ il ruolo tra i verde oro fu Gilmar, che difendeva la porta dei campioni del mondo del 1958 e del 1962, pochi ricordano Felix vincitore contro l’Italia nel 1970, qualcuno in più Taffarel, che superò sempre gli Azzurri nella finale americana del 1994, ma è l’incarnazione negativa del goleiro brasiliano che resta a imperitura memoria, quella di Moacir Barbosa e di Valdir Peres, scomparso in queste ore. Il primo non si risollevò mai più dall’essere additato come responsabile del Maracanaço del 1950, finendo i suoi giorni con il fardello di quella “colpa”, anche se sicuramente non fu più colpevole dei suoi compagni. Uguale destino, anche se in misura minore, ha vissuto il secondo, difensore dei pali della sua nazionale ai mondiali di Spagna 1982.

Portiere di buon livello in patria, in quella nazionale rivestiva quel ruolo marginale, riempitivo, il primo da cui partire ma l’ultimo ad essere ricordato, in una squadra che annoverava tra le sue fila gente del calibro di Junior, Eder, Toninho Cerezo, Socrates, Zico, questi sì giocatori che accendevano la fantasia dei propri tifosi. La sua storia Waldir Peres de Arruda la scrisse, suo malgrado, il tardo pomeriggio del 5 luglio del 1982, quando di fronte si trovò l’Italia, apparente vittima sacrificale, ma che si chiuse tra le disperate lacrime brasiliane, con un nome che avrebbe popolato a lungo le notti di ogni appassionato brasiliano: Paolorossi, incubo azzurro dello stesso Valdir Peres.

Manco a dirlo, lui fu il primo e in pratica l’unico ad essere additato come colepvole di quella disfatta, dimenticando l’errore di Junior che perde Rossi in marcatura sul primo gol, o quello di Cerezo in disimpegno che ragala sempre a Rossi la possibilità della seconda rete, o la dormita collettiva sul corner che portò alla terza, sempre e solo di Paolorossi. Niente, il colpevole per la storia resta lui, e con questo peso ha continuato la sua vita poi lontana dal calcio, quasi in espiazione di una colpa che in realtà non aveva.

Quello che, però, a Valdir Peres è mancato in patria, lo ha conquistato nei nostri cuori, e non per dileggio. Tutto quello che abbiamo vissuto, noi che c’eravamo, in quella estate del 1982, rimarrà sempre indelebile, anche i protagonisti delle altre squadre, anche gli eroi negativi per altri, ma che per noi che c’eravamo restano solo gli attori non protagonisti di quella formidabile vittoria dei “Figli di Bearzot”. Ora Valdir Peres se ne è andato, per noi entra nel mito, come Gaetano Scirea, come Socrates, come Jupp Derwall, come Enzo Bearzot.

 

 

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