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Kloppismo, (ri)nascita di una filosofia

Nel calcio di questo nuovo millennio che stiamo vivendo, “guardiolismo” è un aggettivo che si è affermato prepotentemente.

Suo mentore, e se vogliamo inventore, quel Pep Guardiola che ha iniziato ad incantare e a far innamorare, con il tiqui taqua del suo Barcellona, fino a diventare con qualche accorgimento, una vera e propria filosofia.

È, infatti, questa filosofia che il buon Pep ha esportato in seguito, prima al Bayern Monaco e poi al Manchester City le quali, per cultura calcistica dei loro Paesi, e anche per qualità dei giocatori, hanno assimilato appunto l’essenza del gioco più che il suo sviluppo tecnico. Nella sua idea primigenia il guardiolismo si è sviluppato in Spagna, nel Barcellona, in cui Guardiola ha trovato la giusta mentalità per applicare il suo gioco tecnico e fraseggiato, fatto di un possesso palla ipnotico che consegnava quasi inerme chi lo subiva alla sentenza del gol. Chiaro che se gli interpreti dello spartito si chiavano Xavi, Leo Messi e “Don” Andrés Iniesta tutto risultava estremamente semplice ed efficace.

Il tiqui taqua ha iniziato a trasformarsi in guardiolismo, quindi in filosofia, prima ancora che in modello di gioco, quando lo stesso Pep si è trasferito al Bayern Monaco e poi al Manchester City. Qui ha trovato organici lo stesso validi tecnicamente, ma con idee di base diverse, basate più sul fisico e sulla corsa piuttosto che sulla tecnica. La sua idea si è allora rivelata nella sua interezza, fornendo, con adattamenti, l’idea del possesso, più veloce rispetto alla Spagna, meno irretente ma comunque efficace con la grande densità di attaccanti che porta nell’area avversaria.

A questa filosofia, oggi, se ne contrappone un’altra che, passando sopra la cacofonia del termine, possiamo definire “kloppismo”, da quel Jurgen Klopp che, dopo aver riportato in auge il Borussia Dortmund in Germania, sta ora riportando allo scudetto in Premier League quel Liverpool che, dominatore negli Anni Settanta e soprattutto Ottanta, manca il titolo da ventotto anni. Che ci troviamo di fronte ad una nuova, ma anche vecchia, filosofia di gioco, basata su un calcio senza fronzoli e imperniato sullo sviluppo “verticale”, oltre che su una difesa quasi impermeabile, è certificato proprio dalle due ultime squadre allenate dal tedesco e riportate negli Albi d’oro, anche se con gli inglesi questo deve ancora avvenire.

Ma indubbiamente questi, con i giallo neri tedeschi ora allenati da Lucien Favre, sono caratterizzati dalle idee di Klopp e, fuor di metafora, è in pratica il ritorno ad un calcio pensato, in maniera errata, antica, basato sulla difesa e sul veloce ribaltamento di gioco, lasciando forse poco ai fronzoli, ma acquistando molto in praticità. Con un pizzico di civetteria autoctona, potremmo dire una evoluzione del calcio all’italiana, ora molto più veloce e meno bloccato, di certo non speculativo. Per certi versi, questo tipo di calcio ricorda nel gioco offensivo lo Zeman foggiano, anche se con maggiori attenzioni difensive. Sintomatico, poi, che in Premier si stia affermando proprio ai danni di quel Manchester City allenato da Guardiola, preparandosi a succedergli, in classifica come nell’affermazione ideologica.

Se poi, alla fine, questa filosofia di calcio verticale riuscirà a prevalere sul guardiolismo ce lo potrà dire solo il futuro prossimo, come sempre, quello che si può già affermare, è che dopo le grandi rivoluzioni, nella Storia come nel calcio, si assiste ad una sorta di revanscismo, di restaurazione di quello che era, un machiavellico gioco di corsi e ricorsi, che alla fine risulta essere sempre approdo sicuro e affidabile.

 

 

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