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I settanta del Golden Boy

È la grigia e operosa Alessandria, al centro del triangolo Torino – Milan – Genova, che il 18 agosto del 1943 vede i natali di Gianni Rivera.

Chi sia e cosa sia stato per il calcio italiano è noto a tutti coloro che hanno vissuto il calcio degli Anni Sessanta e Ottanta, e ne hanno potuto seguire le gesta, figlio di un calcio che ormai non c’è più. Perché prima che grande calciatore e professionista esemplare, Rivera “è stato” il Milan. Il calcio – business che viviamo in quest’epoca non ammette totem né bandiere, Francesco Totti alla Roma, dopo l’addio di Alessandro Del Piero alla Juventus, resta forse l’ultimo di quella specie. Rivera, dopo aver conosciuto il grigiore della sua provincia ed il grigio della maglia dell’Alessandria, passò al Milan nel 1960, dipingendo il suo mondo e la sua vita di rosso e nero per sempre. Con i rosso neri Rivera ha scritto un romanzo, quasi un’epopea, durato venti anni, segnato da vittorie, sconfitte, insieme a grandi compagni di squadra come Juan Schiaffino e Nils Liedholm, e grandi allenatori come El Paròn Nereo Rocco, condito sempre dalla sua leggiadria tecnica e dalla sua visione di gioco.

Fin dalla sua prima apparizione sul palcoscenico nazionale del calcio, il Gianni milanista fu destinato a dividere. Il popolo rosso nero lo amava incondizionatamente, sia che lo considerasse Abatino, sia che lo vedesse Golden Boy: non poteva sfuggire all’acume e alla penna del più grande cantore di calcio dell’epoca, Gianni Brera, che ne coniò le due definizioni. Ancora più rovente e polemica fu la sua esperienza in Nazionale. Qui il suo alter ego non era un’altra versione di se stesso, ma la classe e la prolificità di Sandro Mazzola, tra l’altro interista fino al midollo, con cui fu costretto a dividere la ribalta per la ormai famigerata staffetta. Essa fu pensata da Ferruccio Valcareggi, CT della Nazionale ai mondiali di Mexico 1970, un modo elegante e salomonico (oltre che pilatesco) per risolvere il dualismo: il primo tempo giocava l’interista, il secondo il milanista. È proprio da quel mondiale che restano indelebili due immagini di Gianni Rivera, fotogrammi di quella splendida battaglia calcistica che furono i supplementari della semifinale Italia – Germania, e che ne racchiudono l’essenza controversa del personaggio. Il primo vede il Nostro abbracciato, disperato e affranto, al palo sinistro della porta, mentre un infuriato Ricky Albertosi lo ricopre di insulti per non aver impedito al pallone colpito da Franz Beckenbauer di finire in rete per il tre a tre, e avrebbe potuto farlo.

Per l’altro fotogramma bisogna attendere poco meno di un minuto e undici passaggi perfetti, quanti ne occorsero dal rimettere la palla a centrocampo fino a far giungere la stessa proprio a Rivera che, battendo quasi un rigore in movimento, spiazzò Sepp Maier e poté levare le braccia al cielo. Apoteosi. Credo che, al di là delle polemiche che sempre ha suscitato il personaggio, sia proprio quest’ultima fotografia quello che può festeggiarlo nel migliore dei modi. Auguri, Golden Boy.

  

  

  

  

  

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