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A winner is a dreamer who never gives up

Un vincitore è un sognatore che non si arrende mai

Ha concluso la sua parabola terrena Nelson Mandela, simbolo e padre dell’Africa, fautore della fine di quell’insulto all’umanità che rispondeva al nome di apartheid. Ha avuto un percorso lunghissimo attraverso quasi un secolo di vita, di cui poco più di un quarto trascorsi in carcere, a Robben Island, proprio per stare lottando per i diritti civili del suo popolo.

La sua lunga detenzione come prigioniero politico lo ha fatto assurgere ad icona per la lotta dell’uguaglianza tra i popoli, sempre con parole di pace, fino alla liberazione, nel 1990, al Nobel e all’elezione presidenziale del 1994. Fin da subito, Madiba ha avuto un sogno: unire bianchi e neri, farli diventare un’unica nazione, senza divisioni o apartheid di sorta. Ma quali mezzi usò Mandela per raggiungere i suoi scopi? Cosa unisce quello che, sostanzialmente, è stato un attivista politico, al mondo dello sport? Fin da giovane egli aveva amato il pugilato, lo aveva praticato, come la corsa e la ginnastica, se ne era servito durante la prigionia per mantenere attivo il suo corpo e il suo spirito.

 

 

Ma durante quegli stessi, duri, anni, a lungo deve aver pensato a cosa potesse fungere da catalizzatore, da elemento unificante tra la minoranza, dominante, bianca e la maggioranza nera. La risposta che trovò fu una sola: lo sport. Nelson capì che attraverso lo sport poteva raggiungere il suo scopo, dare un’identità ad una nazione divisa, per questo appena eletto presidente si impegnò da subito nell’organizzazione dei campionati mondiali di rugby (tra l’altro, sport soprattutto dei bianchi in quel periodo), ottenendone l’assegnazione per l’edizione del 1995, primo grande evento organizzato dal Sud Africa dopo l’embargo, ma capì anche che la nazionale del suo paese sarebbe dovuta diventare protagonista dell’evento, e non semplice partecipante. Così nacque “one team, one nation”, così il Sud Africa diventò la “Rainbow Nation”, vincendo quel Mondiale. Quando Jacobus François Pienaar, il capitano di quella squadra, gli Springbok, alzava al cielo il trofeo, non erano solo le sue mani, ma quelle di un intero popolo, bianco e nero, senza distinzioni di colori e di razze, quasi a benedire quel nuovo corso e a rendere concreto il sogno di Mandela, che lo aveva costruito con il suo esempio e la sua sofferenza.

Anche il calcio (maggiormente praticato dai neri) ha avuto la sua parte, sempre Madiba, ottenendo l’organizzazione dei Mondiali del 2010, apriva definitivamente al mondo la sua nazione libera e unita. Ritiratosi, ormai infermo e non più cosciente, l’attaccamento alla vita cui quasi lo “costringevano” la sua famiglia e le tradizioni del suo popolo, sembravano divenire un’oppressione maggiore di quella piccola cella di Robben Island. La morte, in questo caso, è giunta a liberarlo e a consegnarlo, finalmente libero, alla sua terra e al ricordo imperituro di tutti i popoli.

 

 

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