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Di padre in figlio

Era il 12 maggio del '74. All'epoca ero una “matricola” di Biologia in attesa del primo esame alla “Sapienza” di Roma. Come tifo calcistico, già dall'età di 8-9 anni, come direbbero nella capitale, “magnavo pane e Lazio”.

La mia infanzia era coincisa, purtroppo, con i tempi bui dei biancocelesti, con le altalene tra serie A e B, pochissime gioie e tante delusioni. Fino a quando, sulla panchina biancazzurra, non si era seduto un tale, Tommaso Maestrelli, che tanto bene aveva fatto a Foggia, ma che, per l'esigente piazza romana, era un illustre sconosciuto. Ricordo che, prima ancora che iniziasse il campionato 72-73, dopo una sconfitta casalinga in casa con il Taranto in Coppa Italia, già si parlava di esonero.

Per fortuna, il presidente, quello che tutti chiamavano “papà Lenzini”, tirò avanti per la sua strada. Il primo anno, una squadra, neopromossa dalla B, che molti avrebbero definito ironicamente “pizza e fichi”, arrivò a giocarsi lo scudetto all'ultima giornata a Napoli, per poi scivolare tristemente (si fa per dire) al terzo posto. L'anno successivo, la stessa squadra, con in pratica due sole correzioni alla formazione base (Petrelli, scartato dalla Roma, in difesa al posto di Facco, e il giovanissimo D'Amico sulla sinistra dell'attacco, in sostituzione del più prevedibile Manservisi) arrivava alla penultima di campionato, con la concreta possibilità di aggiudicarsi, contro il Foggia, lo scudetto con una giornata di anticipo.

Io e mio fratello ci posizionammo in una stipatissima curva Nord, mentre altri 70000 laziali affollavano lo stadio in ogni ordine di posti e un numero incredibile di bandiere biancocelesti e dell'Italia coloravano l'Olimpico, allora senza coperture e aperto all'azzurro del cielo di Roma. Il mio ricordo di quel giorno si ferma al rigore di Chinaglia. Giorgione fermo sul dischetto ad aggiustarsi la palla. Su di lui migliaia di occhi e un sol cuore. Il resto è storia, il resto è il primo, indimenticabile scudetto laziale, il resto è il campo invaso dai tifosi impazziti a fine gara, il resto è Maestrelli rimasto pietrificato in panchina e abbracciato dal dottor Ziaco, da Nanni e compagni. A distanza di 40 anni, sono tornato all'Olimpico per ricordare quel giorno.

“Di padre in figlio” recita lo slogan della manifestazione fortemente voluta dal capitano di allora Pinotto Wilson e dagli altri superstiti di quello che fu un autentico miracolo calcistico. E, in effetti, ci sono tornato con i miei figli, nati a Caserta, ma inevitabilmente di sangue biancoceleste, e con mio fratello che, da quel giorno, ha vissuto ancora tanti momenti esaltanti di Lazio. Ma quel giorno, e quella squadra, rimarranno per sempre indelebili e inarrivabili, perché specchio di un mondo che non c'è più, quando le partite si sentivano alla radiolina, la televisione nazionale trasmetteva un tempo della partita più importante la sera e “90° minuto” era un rito irrinunciabile.

Era un mondo in bianco e nero, ma era un mondo più vero, in cui non esistevano gli “opinionisti”, i “buu” razzisti e le uniche violenze erano gli sfottò tra tifosi, che il giorno dopo si esaurivano al bar sotto casa. Nella nuova magica notte dell'Olimpico, si sono succeduti, fuori e dentro il rettangolo di gioco, preceduti dalle spettacolari esibizioni dei paracadutisti piovuti dal cielo e dalla sfilata dei ragazzi rappresentanti le 59 sezioni della polisportiva Lazio, i grandi protagonisti del passato: i “sopravvissuti” del primo scudetto, quelli dei -9 (per i non laziali, cioè, quelli che, capitanati da Eugenio Fascetti, scongiurarono il baratro della serie “C”, pur partendo con una penalizzazione di 9 punti), i reduci dello scudetto del 2000.

Una “full immersion” di “lazialità” che, se da una parte ha visto susseguirsi campioni e figli e addirittura nipoti di calciatori e allenatori, da Nesta a Mihajlovic, Sergio Conceicao, Pulici, Martini, Signori, Giordano e via discorrendo, dall'altro ha mostrato, compatto, come mai in questa stagione, il popolo laziale, 65000 persone di ogni età a ridere, piangere e cantare: “Lazio sei grande, te volemo bene!”. “Ai tifosi - ha detto Fascetti - bisogna regalare emozioni”. La serata voleva ricordare soprattutto chi queste emozioni le ha sapute regalare. Recitava il vecchio inno: “Mille bandiere stamo a sventolà, su c'è er Maestro che ce sta a guardà”. Mi piace immaginare che l'altra sera, con Re Cecconi, Frustalupi, Chinaglia e tanti altri, anche “papà” Tommaso, da lassù, si sia fermato contento a guardà...