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The King is Scottish

  

Si è conclusa l’edizione 2013 del prestigioso torneo di Wimbledon con non poche sorprese. Il torneo che avrebbe potuto decretare il definitivo declino di Federer o l’assoluta ascesa all’Olimpo del tennis di Nadal, si è rivelato come una competizione che lascia molti dubbi e poche certezze negli appassionati ed esperti del settore tennistico.

Troppi gli infortuni, troppe le sconfitte nei primi turni come quella dello spagnolo Nadal (numero 5 al mondo) contro il belga Steve Darcis (numero 135!!!) o quella di “King” Roger Federer, vincitore del torneo per ben 7 volte come Pete Sampras, uscito sconfitto dal match con l’ucraino Sergiy Stakhovsky (numero 116). Se per Rafa vi è l’attenuante di non dover difendere i punti acquisiti l’anno precedente, per Federer giustificazioni proprio non se ne trovano. Per tutta la prima settimana del torneo si è solamente parlato di quanto il manto erboso sia cambiato rispetto alle edizioni precedenti, essendo molto scivoloso e quindi facendo correre un serio rischio di infortuni ad articolazioni ai tennisti, e si scommetteva ormai su quante defezioni giornaliere si sarebbe dovuto assistere, con il tremendo dispiacere dei fortunati spettatori che solo chi ha provato ad acquistare un biglietto per l’entrata a Church Road (sede del torneo dal 1922) sa quanto sia complicato accaparrarsi un ticket per vedere dal vivo i match.

  

 

Tornando alla cronaca sportiva, incomincerei dai colori italiani che hanno visto il trionfo nella categoria junior dell’ormai più che conosciuta promessa italiana Gianluigi Quinzi, che riesce ad aggiudicarsi il titolo dopo un’attesa dal lontano 1986, quando un giovane Diego Nargiso si impose in finale. A sentir parlare il giovane tennista, ci si accorge di quanta determinazione e quanta grinta porti con sé in ogni match, e ci si accorge pure di quante di queste qualità siano attribuibili a paesi come l’Argentina o gli USA dove Quinzi si allena ormai stabilmente, date le difficoltà linguistiche che a volte lo frappongono con la lingua di Dante. Speranza sì, ma con grande cautela, dato l’alto tasso di giovani talenti persi per strada una volta affacciatisi in ambiente professionistico, ma con una fiducia spassionata per un ragazzo che fa della forza mentale una delle sue armi migliori, caratteristica fondamentale per un giocatore di tennis di alto livello.

  

 

Il torneo maggiore è stavo vinto da William Wallace…..pardòn Andy Murray, divenuto paladino inglese avendo riportato in patria dopo 77 anni dalla vittoria del mitico Fred Perry, il titolo di questo Slam. Murray s’è imposto con poche difficoltà in una finale contro uno stanco Novak Djokovic, reduce dalla maratona in semifinale contro Del Potro, match molto più emozionante della partita conclusiva finita in 3 set. Il perché del mio dèjà vu precedente è dovuto a rimembranze delle guerre che contrapposero Scozia ed Inghilterra intorno al XIV secolo che vedevano appunto la patria di Murray contrapporsi a sua maestà Edoardo I re D’Inghilterra, ebbene sì, il tanto acclamato e festeggiato vincitore di Wimbledon in realtà è cittadino britannico, ma nato in Scozia e non in Inghilterra, nazione ospitante il glorioso torneo di cui si sta parlando, ma ormai adottato da anni dai tifosi inglesi per via della scarsa presenza di giocatori nati sulle sponde del Tamigi o perlomeno in territorio inglese.

  

 

Sul fronte delle “miss” così appellate in ogni circostanza nella competizione ad ogni chiamata del punteggio, tutte le teste di serie sono cadute strada facendo, spianando la strada ad una finale tra la francese Marian Bartoli e la tedesca Sabine Lisicki, match conclusosi con la vittoria della prima in due set. Scema così questa edizione su uno dei o forse il più importante torneo al mondo, annata che di certo non sarà ricordata per il grande spettacolo visto in campo, ma più per il dilemma se la matematica si sia impossessata di questo sport, trasformando i tennisti da sportivi a meri calcolatori dei propri guadagni e dei propri risultati.

  

  

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