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The Black Mamba

Quando si ritira un grande campione dello sport è sempre un momento di grande tristezza, sia per i tifosi che ne hanno seguito e amato le gesta, sia per gli avversari che ne hanno temuto e ammirato le giocate.

È importante che egli lo faccia quando ha ancora energie da spendere in campo, piuttosto che trascinarsi sullo stesso, alla ricerca di una forma che non potrà più tornare.

Anche per questo va omaggiato Kobe Bryant, che si è ritirato dalla pallacanestro giocata in questi giorni. Bryant ha rappresentato il meglio del basket americano e mondiale insieme a pochi altri, nato quasi predestinato perché pane e palla a spicchi erano già il companatico della sua famiglia, con il padre giocatore professionista. È un po’ anche un nostro mito, Kobe, perché i suoi primi anni, e le sue prime caracollate sul parquet le ha vissute in Italia, dove il padre Joe giocava.

Il ritorno in patria ha legato Bryant a una sola squadra, che è diventata la sua famiglia cestistica per sempre, giurando amore eterno, e reciproco, ai Los Angeles Lakers. Ha attraversato un pezzo di storia del basket Nba, e ora siede al fianco di Michael Jordan, Earvin Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar, miti eterni di questo sport, come eterno resterà Kobe. Punti su punti ne hanno contrassegnato la carriera, lui guardia tiratrice, il canestro come giocattolo con cui baloccarsi, sublimazione del suo giocare e gioia dei suoi tifosi.

Un’avventura iniziata quasi venti anni fa, quando indossò la prima canotta dei Lakers, era il 28 gennaio 1997, evolvendosi di gara in gara, di stagione in stagione, seguito e plasmato dal suo mentore, dal suo padre putativo sul parquet, Phil Jackson contribuendo i due, insieme a Shaquille O’Neal, al three peat dei Lakers nel 2000, 2001 e 2002, con altri due titoli conquistati nel 2009 e 2010 a completare il pokerissimo, sempre con Kobe in campo e Action Jackson in panchina.

Come tutti i protagonisti dello star system americano, nemmeno Bryant ka potuto evitare guai con la giustizia. Il tutto accadde quando, nel 2003, fu accusato di stupro, accusa poi caduta anche se Bryant non nega il rapporto. Ma il lato oscuro di questo campione non è solo questo, anche il suo carattere ed il modo il più delle volte egoistico di giocare lo hanno reso spesso antipatico, anche all’interno della propria squadra, accusato di essere un accentratore di gioco.

Un difetto, se vogliamo, compensato dalla quasi eterea capacità realizzativa che ha fruttato innumerevoli vittorie al suo team, qualità di cui si è avvalsa anche la nazionale a stelle e strisce, in cui Black Mamba, come egli stesso si è soprannominato, ha contribuito alla conquista di due ori olimpici, nel 2008 e nel 2012. Caratteristica, quella della grande capacità realizzativa, dimostrata anche all’ultima recita, con i sessanta punti realizzati contro lo Utah Jazz, nonostante un corpo che sa che “è ora di dire addio”.

Come ha scritto nel suo commovente commiato al basket, Kobe e il suo sport si sono dati entrambi tutto quello che avevano, perché nonostante il passare degli anni, delle battaglie sul parquet giocate, le tante vittorie e le poche sconfitte, Bryant è rimasto sempre “il bambino con i calzini arrotolati, bidone della spazzatura nell’angolo, cinque secondi da giocare”. Alla fine, spesso gli addii sono tristi, solitari y final: non nel caso di Kobe Bryant, The Black Mamba, che con dolcezza dice addio al basket.

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