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La fine dei sogni

Ci sono eventi, nel corso della storia dello sport, ma nella vita stessa, che sembrano marginali nel momento in cui accadono, ma che finiscono, con il tempo, per portare a cambiamenti epocali.

Basti pensare ai mutamenti che può portare in una disciplina sportiva il semplice cambiare qualche regola (il fuorigioco nel calcio, il sistema di punteggio nella pallavolo, il tiro da tre punti nel basket), o qualche modifica gestionale (si pensi all’incidenza della legge Bosman su tutto il movimento sportivo).

Un cambiamento che segnò una vera rivoluzione in tutte le discipline sportive fu quello che interessò il passaggio dal dilettantismo al professionismo. Il problema tra queste due forme di fruizione sportiva iniziò a porsi soprattutto in sede di Giochi Olimpici, che furono, a partire dal 1896, la massima vetrina sportiva mondiale, quando ormai lo sport vedeva coinvolte grandi fette di popolazione, e non solo le elite aristocratiche.

Fu lo stesso Pierre de Frèdy, barone de Coubertin, ideatore e promotore dei moderni Giochi Olimpici, a bandire dagli stessi tassativamente i professionisti (maestri di scherma esclusi), perché dai suoi studi classici aveva intuito che il tramonto delle Olimpiadi Antiche, con la definitiva sospensione da parte dell’imperatore Teodosio I nel 393 d.c., fu dovuta proprio alla degenerazione degli atleti professionisti. Infatti, il professionismo è da sempre esistito, da quando le varie città dell’Ellade, facevano a gara per accaparrarsi le prestazioni dei campioni dell’epoca in cambio di ricchezza e gloria, esiste anche all’inizio delle Olimpiadi Moderne, perché più volte si è tentato, nel rigido passato, di aggirare il veto, basti citare un esempio a noi vicino, quello della nazionale di calcio del 1936, con calciatori professionisti camuffati da universitari dal furbo Vittorio Pozzo.

Tra squalifiche, illustri o meno, questa battaglia si è conclusa nel 1988 quando alle Olimpiadi di Seoul il veto cadde, demandando le regolamentazioni di accesso alle singole federazioni ma senza distinzione di status, più che altro adeguandosi ai tempi in cui era necessaria, come ora, la presenza dei grandi campioni che attirassero le attenzioni e i soldi dei grandi sponsor, per non vedere il tramonto dei Giochi.

Ora, proprio in questi giorni, l’Aiba (Associazione Internazionale Boxe Amatori) ha proposto che l’ultimo tabù cada anche nel pugilato, con la partecipazione, già da Rio 2016, dei pugili professionisti dal grande richiamo internazionale. Non ci soffermiamo sulla poca opportunità di questa scelta, minata anche dal pochissimo tempo a disposizione per pensare quelle regole necessarie da usare come criterio di ammissione. Né ci meraviglia più di tanto che l’idea, già in bozzolo da tempo, per la verità, sia portata avanti da mr. Wu Chung-kuo, cinese di Taipei, presidente della suddetta Aiba ma soprattutto senza alcun trascorso pugilistico, avendo in gioventù praticato basket: ormai a questi trasformismi pur di raggiungere posizioni di potere siamo abituati, anche se non rassegnati.

Quello che ci mette veramente tristezza è la caduta di un altro caposaldo dello sport inteso solo in quanto tale, con la contaminazione affaristica che ha ormai conquistato tutte le piazzeforti possibili. In questo caso, poi, la resa dei vecchi principi olimpici, per quanto inevitabile, ci sembra definitiva. Dopo la capitolazione dell’atletica, la boxe era rimasta, in pratica, l’unico sport che univa Olimpiadi Antiche e Moderne: nato, in pratica, con l’uomo stesso e la sua voglia di lottare, il pugilato ha fatto parte da subito dei Giochi Olimpici antichi, è entrato in quelle moderne da St. Louis 1904, diventando con il tempo e l’apertura al professionismo delle altre discipline, una delle ultime roccaforti del dilettantismo.

Quel dilettantismo che faceva sì che l’Olimpiade diventasse il sogno di tanti ragazzi avviati a questo sport, che lottavano e sudavano e si sacrificavano per quattro anni per vivere quell’unica possibilità, che magari si esauriva nell’arco di un solo incontro, ma con la gioia di aver partecipato, quasi parafrasando nel modo migliore gli intenti auspicati da De Coubertin: “L’importante non è vincere, ma partecipare”, anche se poi non tutti gli attribuiscono la paternità del motto, e cambiando ancora una volta gli intenti olimpici originari, secondo cui contava solo vincere. Quel dilettantismo che ha proclamato ad eroi moderni pugili come il cubano Teofilo Stevenson, fuoriclasse della categoria, assurto a vera icona del suo paese e immune per questo a qualsiasi tentazione di professionismo.

Non siamo così ingenui dal pensare che questo cambiamento non sarebbe mai avvenuto: intorno alla boxe, nei grandi eventi, girano cifre enormi, l’idea di rilanciarla in un periodo di declino era chiaro che sarebbe dovuta passare attraverso i Giochi. Il problema è che, in realtà, il pugilato è in crisi a livello professionistico, ma gode ottima salute in quello dilettantistico dove non mancano i pugili, quel dilettantismo senza cui “la boxe in generale non esisterebbe” (parole e musica della North American Boxing Federation), quella boxe regolamentata nelle sue forme moderne da James Figg nell’Inghilterra della metà del diciassettesimo secolo e che, con lo spegnimento del sogno olimpico, rischia di perdere la sua linfa vitale. 

 

 

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