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Emozioni mondiali

È sempre difficile capire quando viene il momento in cui le emozioni possono cominciare ad essere razionalizzate, se deve trascorrere un’ora, un giorno o una settimana, o quanto altro tempo occorra. Ad una settimana circa dalla fine del Campionato del Mondo di calcio in Brasile, proviamo a dare un senso al crogiolo di emozioni che hanno suscitato un mese di gare intense, vibranti, emozionanti.

Innanzitutto non è in discussione il risultato tecnico, la Germania ha vinto meritatamente, e questo è meno scontato di quel che si può credere: basti pensare a Brasile 1950, quando una delle migliori espressioni auriverde subì l’onta della sconfitta ad opera dell’Uruguay, o a Svizzera 1954, quando stessa sorte toccò alla splendida Ungheria di Ferenc Puskas, battuta dagli stessi tedeschi. Appurata, quindi, la bontà della vittoria tedesca, frutto di una programmazione che, per ora, possiamo solo invidiare e sognare, tante sono state le immagini che potrebbero essere prese a simbolo di questo mese di calcio della massima competizione calcistica. Innanzitutto gli stadi, pieni, colorati e rumorosi come solo in Brasile potevamo aspettarci, e tutto questo ad onta dei timori della vigilia, che facevano temere incidenti per la difficile situazione sociale del paese sudamericano: la forza del calcio ha fermato tutto, ha regalato un mese di distrazione, anche se non so quanto positiva, perché il calcio corre sempre il pericolo di essere strumentalizzato quale “oppio dei popoli”.

A noi italiani, purtroppo, è rimasta la pochezza delle prestazioni della nostra nazionale, “azzannata” dal morso di Luis Suarez a Giorgio Chiellini, che ha messo a nudo tutta la fragilità del nostro sistema calcio. Se abbiamo raggiunto il punto più basso non lo so, la speranza è che sia almeno un punto di partenza per ricostruirsi dalle fondamenta, altrimenti sarà una inesorabile china discendente che potrà portare solo all’oblio.

 

 

È stato il mondiale dei sogni infranti e dei momenti, degli episodi che hanno deviato più di un destino di una partita: con le loro ottime prestazioni hanno sognato nazionali come l’Ecuador, il Cile, il Messico, la Costa d’Avorio e la Costa Rica, sempre ad un certo punto del loro percorso si sono dovuti arrendere ai bizzarri rimbalzi del pallone, come quello del cileno Mauricio Pinilla che si stampava sulla traversa di Julio Cesar e che, se entrava, eliminava anzitempo i padroni di casa.

 

È stato il mondiale delle lacrime, come sempre in competizioni di questa portata: toccanti quelle di David Villa, un misto di delusione per la resa incondizionata della Spagna e per essere al capolinea della sua avventura nella Roja; toccanti anche quelle di James Rodriguez, con la sua Colombia eliminata dal Brasile, ma lui sicuramente un campione consacrato da questo torneo. Particolarmente emozionanti sono stati i momenti dell’esecuzione degli inni: forse è retorica, ma spesso netta si è avuta la sensazione di un popolo dietro quelle esecuzioni musicali, specie quando coinvolte erano le squadre sudamericane, Brasile in primis, anche se ho già scritto che forse quell’urlare a squarciagola poteva essere più sinonimo di paura che di forza.

È un mondiale che non può non essere ricordato per il clamoroso uno a sette subito dal Brasile contro la Germania in semifinale: bisogna risalire addirittura al 1930 per trovare semifinali così squilibrate, un risultato che potrebbe anche aver significato la fine del futebol bailado sogno di tutti gli appassionati. E poi la “caduta degli dei”, Lionel Messi e Cristiano Ronaldo, evanescenti nonostante i quattro gol dell’argentino, ma sarebbero ancora tante le emozioni da raccontare, non basta lo spazio, però le tante fin qui elencate ci fanno capire della bellezza di questo sport: in molti, non solo in Italia, stanno cercando di eliminarne questa essenza riducendolo a solo fenomeno “industriale”, per fortuna il gioco è sempre più forte dei mercanti che vogliono svilirlo.

 

 

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