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Adiòs, O' Rey

Scrivere di Edson Arantes do Nascimiento, Pelè, nel giorno del suo addio alla vita terrena non è farlo di un mito del calcio, ma del calcio stesso.

  Pelè è, infatti, stato il calcio, nella sua essenza, nella sua arte. È stato un personaggio che ha raggiunto una tale popolarità che risulta quasi impossibile scriverne senza incorrere nel già detto: su tutte le zolle di terreno calpestate dall’uomo sul pianeta è noto chi egli sia. Nulla che non sia riferito allo sport del pallone ha potuto prescindere dal vederlo, prima o poi, in qualche modo nominato.

Pelé è stato un mito, diventandolo appena iniziò a calciare una palla, di stoffa all’inizio, tra le strade infangate di Três Corações dove era nato, assurgendo al pantheon calcistico a nemmeno diciotto anni, nel 1958, quando seppe tramutare in sorrisi di gioia le lacrime di un popolo che solo otto anni prima aveva vissuto una vera tragedia sportiva, il Maracanaço, asciugando anche quelle del padre, Dondinho, a sua volta calciatore e suo primo idolo. Lui, con tutta la gracilità della sua giovinezza, seppe trascinare nella lontana Svezia, una nazione agli antipodi del suo Brasile, la sua nazionale alla conquista del sospirato primo titolo mondiale.

Si era da poco legato al Santos, vincendo anche la saudade per la sua famiglia, a cui era legatissimo, ma il destino per lui aveva tracciato il sentiero della gloria. Vissuta quasi da comprimario la vittoria del 1962 in Cile, messo fuori gioco nella partita con la Cecoslovacchia a causa di uno stiramento inguinale, vittima delle “cure” particolari degli avversari a quello inglese del 1966, seppe prendersi la rivincita con gli interessi in Messico nel 1970, quando in finale fu proprio l’Italia a saggiare la sua grandezza.

Resta un vero manifesto del calcio il colpo di testa su Tarcisio Burgnich con cui superava Ricky Albertosi, prima che i suoi compagni dilagassero dopo il pareggio di Roberto Boninsegna. Un cerchio che si chiude, il Pelé non più gracile, che seppe esplodere tutta la sua potenza in un colpo di testa più potente di un tiro con i piedi. Un ricordo forse non piacevole per noi, ma non si poteva non applaudire a una prodezza del genere, anche contro la nostra nazionale. Poi lasciò il Santos, andò a spendere le ultime briciole della sua classe negli Stati Uniti, prima di diventare ambasciatore del calcio nel mondo.

O’ Rey, nel vero senso del termine. Tecnicamente Pelè fu un giocatore eccellente in tutti i fondamentali, non come altri campioni che sono stati grandi in un particolare gesto tecnico. Grande nel colpo di testa, come abbiamo scritto, eccelso nel dribbling, ottimo con il destro e con il sinistro, potente e morbido secondo le circostanze. Probabilmente racchiuderlo nella dizione “campione” è anche poco, ma questa ci fornisce il vocabolario. Ora la sua parabola umana si è conclusa, ma mai si potrà spegnere l’eco delle prodezze che ha regalato al popolo degli appassionati di calcio, a tutte le latitudini. Adios, O’ Rey.

 

 

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