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Gli errori di Carletto

 

Nella vita professionale di un allenatore di calcio uno dei primi insegnamenti che si apprende è quello di dover convivere con l’esonero.

Il più delle volte esso rappresenta il fallimento, tecnico e societario di quell’avventura lavorativa, è chiaro che, al di là delle responsabilità, un allenatore si ritrova a mettere in discussione tutta la sua filosofia calcistica, alla ricerca di un equilibrio che permetta una serena valutazione dell’accaduto quando, in genere, rabbia, tristezza, frustrazione sono gli stati d’animo dominanti.

Sicuramente queste fasi sta passando, in queste ore, Carlo Ancelotti, sollevato dall’incarico in pratica pochi minuti dopo il ritorno del suo Napoli alla vittoria contro il Genk che significava l’ingresso degli azzurri agli ottavi di Champions League. Il divorzio era nell’aria, dal famoso ammutinamento, la gestione del tutto da parte della società, dei giocatori e dello stesso allenatore era stata approssimativa quanto deleteria, tra scarichi e assunzioni di responsabilità, multe varie ed un atteggiamento di squadra per niente consono ad un gruppo di professionisti, peraltro impegnati in un campionato atteso di vertice, ma troppo presto abbandonato al suo destino.

In mezzo a tutta la confusione che si è ingenerata, la domanda che ci sorge spontanea, ma che ha un radicamento più profondo e lontano nel tempo, è: perché? Nel nostro peregrinare intorno e dentro il mondo del calcio, cercando di interpretarne le molteplici sfaccettature, è la domanda che ci ha assillato sin dall’ingaggio di Carlo Ancelotti come allenatore del Napoli: perché un allenatore pluridecorato come lui, vincitore in tutti i migliori campionati d’Europa, uno dei tre allenatori ad aver vinto per tre volte il massimo trofeo continentale, aveva accettato di venire ad allenare la squadra partenopea, non di certo appartenente alla nobiltà europea, anche se in ascesa in Italia?

Il sapore della sfida, certo, ma come pensava di poterlo fare in una società gestita in maniera patriarcale e feudale, quando poi non è stata fatta una rosa all’altezza delle sue capacità, anzi non sfruttando il suo buon nome costruito in giro per l’Europa per ingaggiare giocatori top level in grado di far fare veramente il salto di qualità a tutto l’ambiente? Tecnicamente, poi, non abbiamo capito perché, nel momento di difficoltà ha continuato con le sue rotazioni invece di bloccare un undici base per cercare di dare identità sicura ad un gruppo che si era evidentemente perso.

Ed anche non abbiamo capito il suo mettere nello staff persone di famiglia (figlio e genero): con tutto il rispetto per la loro bravura e professionalità, ha reso in pratica vulnerabile la sua figura e il suo appeal nello spogliatoio quando le cose hanno iniziato ad andare male. Potrà essere un caso, ma poi gli sono stati rinfacciati dai giocatori metodiche che già gli erano state contestate al Bayern Monaco (allenamenti blandi, troppe rotazioni, il troppo demandare al figlio Davide), guarda caso la prima squadra dove aveva portato appunto il figlio nello staff (in precedenza ruoli nei settori giovanili del Paris St. Germain e del Real Madrid).

Un autogol da parte del buon Carletto che non ci saremmo aspettati da un tecnico della sua esperienza, che ben sa che l’allenatore è sempre un uomo solo al comando, che la truppa così lo identifica e malvolentieri accetta chi parla per lui.

 

 

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